A Bravetta il
sole ttuppava sempre due volte al giorno. Prima dietro le gabbie delle galline,
poi giù nella panza grama della valle. Non andava oltre, si fermava lì, io
manco mi ‘nfacciavo a verificare; perché ospite ero, e mia zia per minacciarmi
usava sempre il nome del padre superiore, ché padre Carlo, ché padre Carlo. Io,
piccolo ero, e per quel poco che potessi affibbiare un ruolo ad ogni nome, quel
padre Carlo l’avevo preso sulla minchia.
Lo so: prendere
sulla minchia un prete che ti ospita nell’agriturismo “Missionari della
Consolata” non è il migliore dei ringraziamenti. Ma vedere quel pezzo di valle
dove la luce si ‘nturtijava tutta per scundersi, era una scusa. La scusa di
vedere Roma stisa sul letto, strass compresi. Allafaccia! Perché alla fine della
baldoria, l’entusiasmo del viaggio Parabitaroma, risiedeva proprio nel viaggio
stesso: Roma la si vedeva col binocolo, diventava un’idea che avremmo dovuto in
qualche modo squaiare nel prato inglese dell’istituto dove avevano deciso di
rottamare la zi’ Vata dopo il congedo dai ventanni somali.
Anzi, sai che?
Eh, Ppinu comu lu nonnu, sai che?, troppe domande faci, vai di là sull’amaca,
diceva la sorella, che poi era una zia strana. Cioè, zia di mio padre, quindi
prozia mia, ma con anticonformismi parentali, mi consolai. Noi, nell’istituto
della Consolata eravamo, e consolarsi su tante inesattezze era l’unica via
d’uscita. Ammè l’amaca, ancora oggi, ricorda il paradiso di quei viaggi
lunghissimi su una Regata Weekend, nel cui bagaglio stipavamo i doni,
l’offertorio in autostrada. D’accordo le latte d’olio, d’accordo lu vinu novu,
d’accordo tutta ‘sta generosità che pure stonava, perché uno avente anche degli
zii in Svizzera si abitua a ricevere cioccolate e mucche. Il sud riceve, mica
dà? Ma siamo pazzi?
Dicevo,
d’accordo tutto, ma quella volta che mia zia ci chiese di donare all’istituto
un capretto vivo, fu il mio viaggio t’‛u tremulizzu. Ahi. Pigliammo l’animale
dai pastori del Paradisu, quello di Parabita, lo legammo razze e peti e ce lo sucammo
per centinaia di chilometri. In macchina cercavo di pigliare sonno, ma quello
di tanto in tanto schiamava come ‘nu mmerda ed io ssaddavo e dicevo i morti
alle suore, ai padri e a tutto l’ambaradan. Mena e rrivamu, papà, che questo
prima o poi si slega e si vendica. Mena papà, mòvite.
Poi arrivammo e
nessuno ci disse grazie. Cavalcai l’amaca ché mi sapeva di cosa nuova, perché
il paese mio se la sarebbe sognata, poi dopo due giorni tornammo a casa. E vaffanculu
a tutto: non ci tornai più. Povero capretto, ma Dio questo vuole? E Gesù, nu
pija parte, eh? Gesù, cci dice? Dormi ‘Ngiò, dormi e spicciala che tra poco
siamo a casa. Mio padre allora mi chiamava ‘Ngiò, ed io mi sentivo ammericano
te quiddhri bboni e non uno stupido bambino cogli occhi talmente storti da non
vedere Roma, il mondo. Anche mio padre vedevo come l’ammericano. Adesso tutto è
cambiato, ho ccunzato gli occhi e già sarebbe una gran cosa se vedessi mio
padre come un padre. Ma quello è un altro discorso che ho preso sullo stommucu prima
di dirvelo.
So solo che uno
ad un certo punto deve dire. La deve smettere di fare il “gioco del silenzio”,
come mi sussurrava la mia amata zia, l’altra, mentre m’incantava d’asilo. Io
ancora oggi aspetto che mio padre mi svegli te bbonnummeju e mi dica ‘Ngiò
domani s’andrà a Roma, con o senza capretto. Se proprio devo essere sincero,
spero ancora che il padre di mio padre, fratello amato di ‘zi Vata, si tolga di
dosso quelle cazzo di assi legnose, mi carichi nella centoventisei rossocomunista
e mi canti volacolombabiancavola, nell’attesa della Marozzi con dentro la suora
superiora che torna in paese per la festa dei santi.
Altro cazzunculu.
Noi questa cosa
della chiesa ce l’abbiamo sempre avuta, in casa. Da generazioni, infatti ci
portiamo sulle clavicole le statue di un santo, che poi son due, eh eh, ché
volevi più leggerezza? No, due santi, Cosma e Damiano vinti in una briscola scumbinata.
Da antenati e antenati, ce li portiamo con noi, nessuno li ha dati ad un
santuario, forse per paura che le nuvole diventassero nuveje e maledizioni pe
lla famija Cristaldi. Ci organizziamo pure la festa rionale; nell’ultima però
mio padre s’è frainteso col fochista, niente botti, e Cosma e Damiano hanno
sceso la rampa del castello angioino girati di culo. E per la prima volta in
vita mia, dò ragione ai santi. E anche alla zi’ Vata, che mai ho visto così
molleggiata di gesti e ‘ncazzamenti dopo il raggiungimento dei novantanni.
Eccarne.
Tutto questo per
dire che ieri, dopo venticinque anni sono tornato a Bravetta per valutare la
possibilità di indovinare il sole ‘nturtijatu nella valle, oltre le gabbie
delle galline. Tanto più che adesso l’altezza me lo concede. Ho desiderato di
andarci solo, cercare i grumi d’asfalto giusti, granello su granello, toccarli
non solo con le suole, come per chiedere se mi avessero incrociato mai, da
bambino. Se avessero visto mio padre tenermi la mano e darmi gli scoppoloni che
mai ho ricevuto. Se avessero visto mia madre dirmi in continuazione “saluta
qui, saluta lì, fanne l’educatu”.
All’inizio mi
sono imbattuto in un altro istituto, quella scuncignata al citofono mi fa “Niente
suore vecchie qui!”. Poi ho chiamato mio cugino, ché quello conosce il virus
della nostalgia, e con la tecnologia ho saputo il vero indirizzo. Sì, proprio
quello. L’ho raggiunto, ci sono entrato e ho ringraziato Dio, ahimè. Quegli stronzoni
ridevano quando, aspettando il buon vecchio don Carlo, accarezzavo i segni
dell’amaca sulle cortecce e i due pini cotulavano la chioma. Hanno riso pure
quando mi sono fatto accompagnare nella lavanderia e chi ti trovo?, lo stesso tagadà
te taju, pronto a girare, come mi giravano ricordi ‘ntr’a capu malata.
Don Carlo, arriva,
si siede, mi invita a fare lo stesso. Mi dice ‘zi Vata?, ahaahahah, a casa la chiamate ‘zi Vata. Quando eri alto
come quel capretto lì, vedi?, no don Ca’, nu zziccare cu lla storia te li capretti. Mi dice, eri alto così
quando non volevi saperne del mondo, e adesso ti trovo qui. Faccio, padre, mi
stavi sulla minchia, e lui mi dona una scoppola, come all’offertorio. Poi mi
racconta la storia di una zia che per ventanni aveva aiutato il popolo somalo e
che chiedeva e chiedeva e chiedeva alla sua famiglia dei beni, anche gli
avanzi, per assolvere al suo eterno sacrificio religioso. Capisci?, mi fa,
ventanni a togliere i corpi bruni dalla polvere di una eterna guerra civile,
poi il doppio per proseguire la sua missione in Italia. Allora mi scappa una lacrima,
allunga il braccio e mi ssaddu comecché fosse una scoppola. Era una carezza, la
più lunga che avessi mai ricevuto, pensai fosse il prolungamento di una carezza
paterna, elemosinata e maledetta.
Dico, padre
Carlo, non mi stai più sulla minchia.
Dice, me la
saluti, quando tornerai? Per me rimane l’unica madre superiora.
Dico, io nella
mia terra non ci so stare più.
Dice, che ti
manca?
Mi manco, mi
sono mancato per tanto tempo. Nessuno mi attende più, laggiù.
Sarà che prima
c’avevo un Dio per paura, sarà che oggi le colombe non volano più e se volano
sono piccioni spruzzati col bianco delle bombolette, all’uscita degli sposi.
Fatto sta che zi’ Vata ha perso l’udito e se prego o bestemmio, fa lo stesso.
Io non so chi per primo abbia inventato il virus della nostalgia, so solo che
per guarire manca sempre quel pezzetto di viaggio.
bellissimo.
RispondiElimina:-))))
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RispondiElimina....Emozioni presenti e pressanti...
RispondiElimina..."Mi manco, mi sono mancato per tanto tempo. Nessuno mi attende più, laggiù".