martedì 29 ottobre 2013

I RED MASQUERADE - Delicatezza, radici e metal

I RED MASQUERADE
Delicatezza, radici e metal di una band emergente

Si chiamano RED MASQUERADE, ognuno rappresenta ciò che Burroughs avrebbe definito the heavy metal kid, ovvero il ragazzo di metallo pesante, ma sono anche di più e quel più è nell'imprevedibile bellezza che custodisce l'esordio, la prima volta. I più si meraviglieranno della mia volontà di parlarne, ma mi hanno sedotto per il mirabile accostamento di una voce che nella modulazione sapiente emerge come delicatissima e una musica aggressiva, eseguita con la dedizione di chi vuole dire qualcosa a tutti i costi e bene. La band: MARCO VIGLINO, chitarra; DANIO MISSUD, batteria; FABIO FRUCI, basso; MARIKA MURA, voce.


      Chi erano i Red Masquerade prima di unirsi per formare la band?
   La caratteristica della nostra band è proprio la diversità di esperienze di ognuno dei componenti. Infatti arriviamo da percorsi e studi molto differenti: c'è chi ha già avuto esperienze con altre band che abbracciavano questo genere musicale; chi invece ha avuto altri progetti indie rock e rock più in generale; chi viene da studi classici e jazz. Com'è ovvio, tutti coltiviamo la passione per il metal e il bello di partire con delle radici così varie è che i nostri pezzi riflettono anche le caratteristiche di ogni componente.

     Chi sono i Red Masquerade oggi?
   Oggi siamo un gruppo di quattro ragazzi appassionati di musica che si divertono a scrivere i loro pezzi e ancora di più a suonarli. Ma far parte di una band non significa solo questo: vuol dire anche andare d'accordo, condividere esperienze, stare bene insieme. La musica è una delle arti che entra negli angoli più profondi delle persone e sarebbe impossibile mettere insieme delle note senza quell'amicizia che stiamo costruendo col tempo. In più è curioso il fatto che tre su quattro componenti vivano insieme (e il quarto abiti dall'altra parte della strada!): questo rapporto così ravvicinato ci aiuta molto non solo a livello compositivo, ma anche nello scambio di idee e nella gestione della parte amministrativa.
   Altra caratteristica a renderci orgogliosi di noi stessi e del nostro lavoro è che ci occupiamo direttamente non solo della musica, ma anche dell'immagine, dei costumi e di tutto quello che riguarda la promozione mediatica. Riusciamo in questo perché all'interno della band abbiamo un fotografo, un tecnico informatico e un'aspirante sarta. Ne deriva un notevole risparmio economico unito a una supervisione globale del progetto.

   Cosa vorrebbero essere i Red Masquerade in futuro?
   Dire che non ci interessa la fama e il denaro, sarebbe una bugia colossale. Ma nel mondo della musica è abbastanza difficile, soprattutto in un genere così di nicchia come il nostro.
   Stando coi piedi per terra e parlando di traguardi non impossibili da raggiungere, possiamo dire che il nostro sogno sarebbe fare un album e raggiungere un alto livello qualitativo. Molto spesso si parla di metal come di una musica estrema, definita quasi rumore. Noi vorremmo sfatare questo mito producendo una musica di qualità e facilmente fruibile. Cerchiamo di impegnarci non solo con gli strumenti, ma anche con argomenti testuali che fanno riferimento a fatti e personaggi storici, tutto sempre in linea con l'immagine che vogliamo dare.
   Un altro obiettivo è quello di suonare live, perché per i musicisti il rapporto col pubblico è fondamentale ed estremamente soddisfacente. Anche questo però è un tasto molto dolente in uno Stato che continua a tagliare i fondi per la cultura e lo spettacolo e che aumenta le tasse ai gestori dei locali.




mercoledì 16 ottobre 2013

MALASPINA - Uomini ai bordi della vita nell'ultimo album di OLIVIERO MALASPINA

MALASPINA
Uomini ai bordi della vita nell'ultimo album di Oliviero Malaspina

E' vita che evapora, si condensa nella poesia e piove di nuovo, in gocce d'oro e disperazione. L'album prende il nome dell'autore, o forse è una benedetta coincidenza tematica, perché in esso imperano gli uomini cui la luce ha girato le spalle, gravitano nella nudità le cose che accadono "al di sopra delle parole" come avrebbe detto Fabrizio De Andrè che proprio in Oliviero vide il coautore del suo ultimo album di notturni, rimasto incompiuto.
E' difficile ricreare in uno scritto come questo l'universo silenzioso che per anni l'autore, amico, ha levigato attraverso un'esperienza diretta, di strada, da tenere sempre nella memoria e da lì farla rivivere come schiaffi in faccia alla decadenza della società odierna. E' difficile fare ciò, un po' per quanto descritto, un po' perché ognuno dovrebbe vivere l'ascolto a suo modo, un ascolto dove la voce è corteccia scavata. Io ho avuto la fortuna di farlo in anteprima poiché insieme a lui ho scritto due testi presenti nell'opera, voialtri potrete farlo a novembre. 
Intanto riporto qui di seguito le parole di Malaspina, come salsedine che lascia il sapore dopo il trambusto dell'acqua.

"Prima di approdare alla tua penna per i due pezzi che abbiamo scritto insieme, sono partito per questo disco da un brano MIGRANTI scritto nel 1997 con l'ausilio di Fabrizio. Poi ho deciso di vedere gli ultimi in faccia, non dal divano di casa. Così, dopo la convalescenza per l'intervento a cuore aperto, comunicai alla mia famiglia, allora quasi tutta in vita, che sarei andato a Roma per un po' di mesi. Lì mi gettai con gli ultimi, furono giorni sfibranti di passione per la vita che ti sputa in faccia. Nel letame che produce i fiori lontano dall'inutile scintillio dei diamanti, dalle stucchevoli maialate dei nostri politici. Poi, quando rientrai a Milano, mi fiondai coi ragazzi di vita di piazza Trento, belle anime, bei corpi. Ero lontano dallo strazio dell'affetto, ma dentro la vita vera, lontano da ogni ipocrisia, dalle veritiere menzogne delle famiglie, delle caste. Gli ultimi sono i primi, vivono, non sono noiosi, producono arte ad ogni passo, ad ogni rivolto di sole e rivolo di pioggia, hanno secchi di neve e un cuore che scalda".





sabato 5 ottobre 2013

lunedì 19 agosto 2013

IL FATTO QUOTIDIANO sul romanzo MACELLERIA EQUITALIA


"Lo stile narrativo di Giuseppe Cristaldi è carnalmente seduttivo, con quell’alternarsi di espressioni dialettali, crude, sanguigne, veraci, a immagini fortemente sognanti, oniriche, sospese. Michele Placido nella nota di copertina scrive che Cristaldi fa scorrere la penna su carta bianca dando vita ad una lingua ‘altra’." di Evy Arnesano








mercoledì 14 agosto 2013

FORSE FESTHA MANNA





Mo' sto a guardare il sole che scende sul culo dell'Ichnusa. 
Da dietro il vetro di una bottiglia il tramonto lo comandi tu, non c'è verso, manipoli una danza di luce e nel mezzo ci metti un sacco di cose irrisolte, poi agiti per bene e la schiuma figlia i volti. 
Non è così che si fa in questi giorni di festha manna? 

Che io, per dire, c'ho l'immaginazione a manovella, e qualche costruzione me la sono fatta, come me la feci in occasione della Cavalcata Sarda. Che a sentirle pronunciate a coppia, queste due parole, mi venne da pensare a una corsa errabonda da monte a valle di bestie e persone. Di bestie, persone e polveroni e vestiti nuovi da invecchiare nell'arco di poche ore.
Credo ti sia giunto a orecchio il fatto che mi fossi approntato come un guerrigliero prima di scendere in Piazza d'Italia e incocciare la sfilata a moviola di tutta la storia isolana. 
Era un altro periodo quello, si usciva da casa in punta di piedi, con la lacrima appesa all'occhio e le dita che s'attorcigliavano nelle tasche. Eppure Ilia, Michele e Francesco risero quando proposi di ribattezzare la moviola  Eis, Esposizione Internazionale Sarda.
Basta cu 'sta cavalcata, nu rende! 
Forse avresti riso anche tu, o avresti risolto il mio problema onomastico nella tua introversione di denti e occhi calabresi. Forse.

Anche ai forse si dovrebbe riservare un'esposizione internazionale.
Metterei nelle ultime file i forse della piccola età, quelli che potrebbero attanagliare gli scouts nel ventre nella boscaglia sul Limbara, forse il falò e la luna, forse il pasto rancido, forse il sole oggi tarderà e i cinghiali, forse, con la luce non passeranno. Forse potremmo evitare la guardia.
A metà ci metterei i forse dell'introspezione, quelli che scavano le ossa di un'adolescenza tutta calli e papà, forse avrei dovuto vivere così, forse collì, forse c'ho la sfortuna incagliata in qualche crepa dell'anima, forse cambio l'elica all'esistenza e rinnovo il patentino per andare oltre. Forse bisognerebbe andare oltre.
In prima fila ci metterei quest'ultimi forse, perché è bene andare oltre sempre e vedere tutta la vita da lontano, dal belvedere di adesso. 
Forse il candeliere che t'eri inciso sul costato, e che avevi difeso dal giudizio di tua madre, ha preso una brutta botta, forse gli uomini hanno piegato le ginocchia per mantenerlo in bilico, forse qualcuno si sarà fratturato la clavicola, forse un tatuaggio non è una faradda, e se lo vedi teso sotto le braccia festanti di un ragazzo, puoi pensare che la danza di Sassari si sia compiuta come tutti gli anni. Forse puoi pensare che Pierluigi e gli altri avranno bevuto le lacrime del solo malto. Forse.

Lo vedi come funziona? Ci sono forse che vanno collocati in prima fila, come le assenze che forse non dovrebbero essere tali. Ma forse oggi è festha manna, manna come il tuo volto in questa schiuma tirata avanti a tramonti e danze.





giovedì 8 agosto 2013

Francesco Improta su MACELLERIA EQUITALIA


"Siamo in presenza di un grande talento narrativo, capace d'intingere la penna nel fuoco che scorre nelle vene di un uomo vero, legato alla terra, ai compagni di lavoro e di lotta, e disposto ad andare fino in fondo, succhiando gli umori di una vita disperata e di bere sorsi di terra, parafrasando il titolo di un'opera di Heinrich Boll. Un libro che ti riconcilia non solo con la narrativa, ma anche con la tua coscienza, spesso colpevolmente addormentata"

venerdì 12 luglio 2013

mercoledì 5 giugno 2013

giovedì 18 aprile 2013

SASSARI NEWS E PUGLIALIBRE su MACELLERIA EQUITALIA




RECENSIONI SU MACELLERIA EQUITALIA



"Un romanzo che attira il lettore 
in un panorama drammatico"
di MICHELE COCCHIARELLA per SASSARI NEWS


....

"Uno Stato che con la sua agenzia di riscossione dei crediti sembra avvicinarvisi come un avvoltoio"
di STEFANO SAVELLA per PUGLIALIBRE



lunedì 15 aprile 2013

INIQUOTOUR - MACELLERIA EQUITALIA IN PUGLIA


Lupo Editore, OverecoAgenzia

INIQUOTOUR
perché un’altra Italia è possibile


MACELLERIA EQUITALIA
Giuseppe Cristaldi in Puglia
dal 20 al 28 Aprile 2013

Bari - Foggia - Lecce - Caprarica
Taurisano - Casarano - Racale

5 racconti, 5 storie, 5 vite; è il mondo al contrario,
siamo noi adesso la carne equina,
siamo noi la vera carne da macello.”
MICHELE PLACIDO

#

20/04/2013 BARI
Libreria Roma
(Piazza Aldo Moro, 13 - Bari)
ore 18.00
con Mingo (da "Striscia la notizia")

22/04/2013 FOGGIA
Libreria Ubik
(Piazza Giordano, 75 - Foggia)
Presenterà il giornalista e direttore artistico
della Libreria Ubik, Michele Trecca, dialogheranno con l'autore
la scrittrice Roberta Pilar Jarussi
e lo scrittore e ricercatore Giovanni Rinaldi   
ore 18.30

24/04/2013 LECCE
Ammirato Culture House
(Via di Pettorano, 3 - Lecce)
ore 19.30
Coordina Stefano Donno, di OverecoAgenzia,
intervengono il Dott. Maurizio Toraldo, la scrittrice Simona Cleopazzo,
l'artista Paola Scialpi.
Leggerà alcuni brani la poetessa Marta Toraldo

25/04/2013 CAPRARICA (LE)
MASSERIA “Stali”
(Via Cisterna vecchia, Caprarica, Lecce)
ore 16.00
dopopranzo con l'autore
ingresso libero
info e prenotazioni pranzo (Masseria Stali, 349-7439463)

25/04/2013 LECCE
Radio System Network
ore 21.00
con interventi dei lettori in diretta su Facebook,
sms, twitter, whatsapp

26/04/2013 TAURISANO (LE)
Casa Vanini, Via Roma 44
ore 19.30
"Introduce Claudio Scordella - vice Sindaco
Relatore prof. Luigi Guidano - insegnante storia e italiano"

27/04/2013 CASARANO (LE)
Libreria Dante Alighieri, Via Matino 10
ore 19.30
con Antonio Memmi, giornalista de IL GALLO

28/04/2013 RACALE (LE)
Associazione APE “Gabriele Toma”
ore 18.30
Piazza Beltrano - Racale



lunedì 8 aprile 2013

MACELLERIA EQUITALIA - PRESIDIO PIAZZALE TRENTO Manifestazione a Cagliari




Manifestazione - Presentazione
del romanzo
MACELLERIA EQUITALIA

Con i ragazzi del PRESIDIO PIAZZALE TRENTO
Piazzale Trento - CAGLIARI

Sabato 13 Aprile, ore 18.00 



venerdì 29 marzo 2013

martedì 26 marzo 2013

ALLE VOLTE ‘U VICHINGU - Morire per il calcio che non conta




‘U vichingu.
Ma mica perché c’avevo bruttezza, no. Mi chiamavanu ‘u vichingu perché quando entravo in campo un solo obiettivo intrecciava i nervi miei: abbattere chi mi si fosse presentato di fronte, uomini, trattori e tir, alla stessa maniera. Che me ne fotteva ammè di fare la signorinella come questi che si sminchiano sull’erbetta, pronti solo a imbrillantinarsi la cresta e a togliersi i peli dalle gambe. Il carattere mio lo facevano gli allenatori, non io, non i genitori, tantomeno le esperienze: se un allenatore avesse avuto la cosa delle sovrapposizioni e dell’aggressione di uno spazio giocato, io avrei fatto lo stantuffo, se al contrario avesse coltivato il fegato del compassato, secondo cui una squadra vincente si fondi sui filtri mediani, io mi sarei piazzato a centrocampo e avrei agguantato quadricipiti e pallone, uomini, trattori e tir, alla stessa maniera. Che cazzo me ne fotteva ammè.

(Vagliò, che guardi? ‘Na sambuca, dammi).
Il calcio di allora era diverso. Per noi era un lusso giocare nella terra, anche quando ti scacazzava in testa gesuccristu, e dalla polvere passavi alla moja. Fango vero, non la torba del professore vivaista. Allora sognavamo sì, mica eravamo minchi; noi sognavamo come tutti gli altri, solo che il nostro sogno ce lo guadagnavamo a morsi e senza parastinchi. Cci ggè, tutte ‘ste mmosse? Li parastinchi? Ma non farmi ridere. Tu ne capisci di psicologia?, se ti presenti al nemico con le mutande in ghisa, quello che fa?, quello pensa subito ad incularti, non ad affrontarti di petto. Noi andavamo senza parastinchi, a volte anche senza divisa, perché non c’erano i soldi, peggio di adesso. Fede nei colori? Tie simminchia!, tutti strazzati eravamo e prestavamo fede solo alla vittoria e al pezzo di gavoi a fine partita.
Se pure ci fossimo cacati addosso, avremmo dovuto non darlo a vedere; specie io, io ero il capitano, in più c’avevo una barba te giungla, e la rissa sotto le unghie. Io ero ‘u vichingu e ogni volta dovevo farlo capire. Mica ‘ste puttanate di mo’: ‘u faraone, ‘u pupone, e cazzate varie.
Essere vichingo comportava una serie di doveri, come quello di vedere allo stesso modo uomini, trattori e tir. Un frontale? Bene, avrei fatto un frontale ogni domenica, poi avrebbero potuto chiamarmi bastardu, intanto la squadra avrebbe strazzatu i tre punti e sarebbe salita in classifica. Mica seria A, no, solo Prima Categoria, ma tanto per me valeva lo stesso: noi eravamo nella serie A della vita, perché dopo la domenica ci stava comunque il lunedì, e quel lunedì non sarebbe stato calcio o scrivania, ma cazzafitte, mi spiego?, intonaco, ponteggi, buttamenti di sangu.
In sostanza, giocavamo per passione, quella passione a cui dai un nome da quando hai dedotto che profferendo assalto, guerra, battaglia, saresti stato oggetto dei soliti pregiudizi paesani. In paese tuttavia mi volevano bene, almeno così sembrava guardando gli spalti. Per me il paese la tribuna era, nella piazza continuano a starci nient’altro che i coglioni.
E poi? Poi quelle domeniche passarono per la gola squamosa del tempo ‘nfamune. Passò anche il paese mio, gli spalti gremiti come l’inps, gli spogliatoi scrostati a unghiate,  la pantofola d’oro col grasso di foca, e tutti quei talenti cresciuti a scorze di pane e smadonnate. Misi il lavoro e la famiglia prima di tutto il resto, emigrai in Germania. Mica Milanu, no, Germania, roba seria e zitta. Fatica e fatteicazzituasempre.

Tu adesso domandi ammé, ‘u vichingu, perché sia morto quel povero ragazzo di Soleto.
Ammé questa cosa ha creato tanto di quel dolore che sarei andato a Roma, avrei preso quelli della Figc, li avrei legati al gancio traino della Opel e trascinati fino al Ministero della Salute; poi avrei preso il ministro, lo avrei ‘ncaprettatu come quegli altri e avrei fatto cadere la macchina in una piscina di merda fino a che non fossero morti ‘nfucati. Sì, affogati, li morti loru.
Perché? E mi domandi pure perché?
Perché finché scompigliamo spettacolo siamo buoni, ma quando domandiamo se non altro un monitoraggio medico che ci consenta di fare quello spettacolo, diventiamo rompicoglioni e rumatu. Spesso spremibili sotto il torchio della disciplinare.
Ellovedi che mi capisci? Io vichingu sono rimastu, anche fuori da quelle quattro linee di gesso. E fuori le quattro linee vuol dire fare l’allenatore, nella propria terra, coi sogni crudi come le ginocchia che zumpano sui grumi di tufara: sono tornato nel Salento e mi sono messo a governare i ragazzi delle giovanili, poi quelli della prima squadra. Certo, essere ‘u vichingu in panchina è come fare il trapezista sull’altalena dell’asilo nido; ti manca quella possibilità di allungare la gamba dove il tuo compagno non arriva, per vedere se sia vero che a certi trattori, certi tir, non si possa togliere il pallone da sotto la marmitta. Se non si possa farli stramazzare al suolo al pari di tutta la carne dribblata.
Rimani lì, quello è il brutto, hai la tua area, hai quell’aia entro cui poterti dimenare come cazzo ti pare al fine di trasmettere una vichingaggine a undici signorinelle, ma niente di più. Tu attacca lo spazio, te chiudi la diagonale difensiva, tu fai l’elastico, quell’altro il blocco in area e quell’altro la solita sponda sul centrocampista che poi manderà in profondità l’attaccante. Quando l’arbitro fischia ingiustamente, t’avvedi che non puoi più raggiungerlo e ringhiargli in faccia, e scalci la prima cosa che ti capita sotto i piedi, una borraccia, ‘nu pallone te scorta, il secchio del massaggiatore. Lu nervosu ti mangia, perché se c’è una cosa che non muta mai col passare degli anni è il vento che passa nella rete avversaria quando cade la domenica giusta.
Mi capisci, Giusè? Tu non capisci una minchia, altrimenti non avresti lasciato il calcio per scrivere ‘sti cazzu te libri.
Fare l’allenatore, è vero, imbriglia chi tiene lu temperamentu te lu vichingu, ma in compenso ti offre delle emozioni che, stando nel tufo, vedresti passare tra l’anche, a mo’ di tunnel.
Una di queste emozioni è la solitudine di certi giocatori, a partita in corso. Una solitudine pazzesca: ci stanno dieci altri compagni, un pallone che passa da piede a piede, voci, incoraggiamenti, una miriade di pretesti che scongiurano astrazioni, ma quelli manco per il cazzo. Tu ci urli addosso, stanno a cento metri da te, eppure emanano quella tanfa ermetica di un isolamento che dagli spalti non si vede, ma che fa vibrare la capanna di lamiera in cui ti ficcano con tutti i panchinari. Un allenatore, allora, più che farli marcare stretti dagli amici, più che appioppare una compagnia palliativa, deve trovare il grimaldello per accogliere quella tanfa, fare sì che agli occhi del diretto interessato quella tanfa diventi profumo. ‘Nu mister deve essere soprattutto psicologo, deve vedere anime dietro quelle creste colorate, dietro quei tacchetti avvitati accazzu, dietro lo strappo che fa il muscolo quando piomba il freddo e le tagliatelle al ragù sono un miraggio da miscelare a gesti scaramantici.

Perché, ti dico questo? Perché.
Perché nel calcio puoi nascere vichingo, crescere la barba e azzannare a destra e a manca, vedere talvolta l’effetto che fa la tua grinta nell’umore del malcapitato di turno, un uomo, un trattore, un tir; però, quando vedi che al posto tuo è quel figlio in solitudine a morire sulla tufara, due conti te li fai. Due conti, cristuddiu, te l’ha fare pe fforza, sennò non sei un calciatore, non sei un allenatore, sei solo un uomo di merda.
Io di errori ne ho fatti tanti, è facile prendermi sulla minchia, però so che quando un ragazzo ti cade nella polvere a peso morto non basta attribuire colpe alla malformazione di un cuore. Perché com’è vero che certe cose non puoi prevederle, è pur vero che per accedere ai monitoraggi medici un calciatore te nenzi, come lo siamo tutti dalla Prima Categoria in giù, deve spendere somme che varrebbero una sontuosa spesa al supermercato. Pane, ddhru ddiu, anche solo un chilo di pane e una bistecca, posto che uno non abbia nu piccinnu appena natu.
(Vagliò, ancora guardi? ‘N’altra sambuca).
Il ruolo dell’allenatore, come ti dicevo, ti impone di sfogliare le personalità, sbucciare i cuori dei ragazzi per sentire la polpa delle emozioni, quindi aggiungerla alla propria e fare in modo che dal folto dei peli di ‘nu scerratu germogli la comprensione, perché se la comprensione ce l’ha un uomo, un trattore, un tir, allora deve possederla anche ‘nu vichingu.
Giusè, sentime bonu: nelle nostre categorie la visita medica è obbligatoria, ma non passibile di sanzione. La maggior parte di questi figli che vanno a spricularsi in campo preferiscono farla dal medico curante anziché affidarsi ad una struttura sanitaria qualificata, semplicemente perché quest’ultima, a differenza del medico, batte cassa, e ogni colpo vale la bellezza di sessanta euro. Ne deriva che di tutti gli atleti militanti dalla Prima Categoria in giù, ovvero circa quattromila persone nella sola provincia di Lecce, solo il venti per cento conosce attendibilmente il suo stato di salute.
Vogliamo scancare la piaga?: la presenza di un’ambulanza all’interno dell’impianto sportivo è resa obbligatoria fino all’Eccellenza, dalla Promozione alla Terza Categoria, nun c’è ‘nu cazzu, me capisci?, nenzi te nenzi, solo la lungimiranza di qualche società che a spese proprie si munisce di attrezzature per il pronto soccorso, tra cui il defibrillatore.
‘U pesce puzza t’‘a capu. Qui ci azzanniamo per inezie, per un fischio, una gambatesa, un insulto, una pietruzza lanciata dalle tribune, e non pensiamo al resto. Intanto la Figc, mediante lo scudiscio della disciplinare, ci bbinchia in capu, ci costringe a stare zitti, a non fiatare. E noi lo facciamo, perché non è bello assistere alla radiazione della Società in cui hai militato sin dalla nascita.
La Federazione non se ne fotte un’amata minchia della salute, le basta solo domandare anticipatamente i soldi per l’assicurazione dei cartellinati. Se, invece, rigettasse tutti i tesseramenti incompleti, per fare un esempio, le iscrizioni di tutte le società sportive non abilitate, per farne un altro, tutti i campi da gioco sprovvisti di omologazione e via dicendo, si giocherebbe fino all’Eccellenza. Poi basta, scarpe al chiodo per tutti, salubre carpenteria e vaffanculo. Altro che pallone.
(Se c’intratteniamo ancora calanu la serranda del bar, con noi dentro. E avoja sambuca).
Mi è andato il sangue a male, oramai. E c’è di nuovo che rimani il vecchio rompicoglioni, e che nessuno come te mi saprebbe intrecciare i nervi come una volta. Come quandu ‘u vichingu infiammava il campo, e tutti cominciavano a scacazzarsi nelle mutande.
Vabbè, andiamocene, ché come certe cose non si dovrebbero ricordare, così certe altre non dovrebbero accadere. Quando ‘nu vagnone cade al centro della tufara, senza dire sillaba, col gioco che si sviluppa dall’altra parte del terreno, non è solo un cuore a fermarsi. Ma quello di tutta una squadra che a partire da quel tragico momento passerà i suoi giorni campando a metà, come chiunque spolveri il culo dell’epilogo col sudario dei ricordi.


Ci sono domeniche che non passano mai, specie quando stai vincendo, e non hai fatto in tempo a spiegare al terzino sinistro che quando si è in vantaggio si deve perdere tempo, calciare il pallone su marte e morti soi, all’occorrenza. Se però, a prolungare il tempo, è la caduta di un ragazzo, guardo la borsa che custodisco nell’angolo della lamiera. Maledico quei secondi che poco prima avrei benedetto e mi chiedo se le piastre del defibrillatore la pensino allo stesso modo, se siano pronte e adesive quanto le si vorrebbe, se gli elettrodi riescano ad eccitarsi come avvezze puttanone. Sono secondi bastardi, sono vite squicciate nell’arco di un respiro, vite in una immensa sala d’attesa senza soffitto. ‘Na tufara di geometrie bianche.
Gli attimi che rubi alla sospensione, li consegni alla paura, la paura che un figlio come Alessio ti muoia sotto agli occhi, così, come un pallone che va oltre la recinzione e che nessuno ti restituisce più. Osservi i calzettoni che s’infittiscono davanti al volto sporco di gesso e non ci vedi un trattore, un tir, ‘nu vichingu, ma una moglie ed un bambino piccolo piccolo che dice papà stringendo la maglia del Milan e se rotola la palla sotto il tavolo, ha un pretesto per cominciare a camminare.


 Da un incontro con l'allenatore ANTONIO RIZZO.

mercoledì 6 febbraio 2013

MACELLERIA EQUITALIA a Verona, con OLIVIERO MALASPINA


MACELLERIA EQUITALIA
Anteprima nazionale il 21 FEBBRAIO a VERONA




Presentazione con cena nell'ambito de IL CONVIVIO

IL BRACIERE and HOBSON'S CHOICHE 
EVENTI CULTURALI ARTISTICI MUSICALI

Giovedì 21 Febbraio, ore 20.00
MAZZANTICA DI OPPEANO, VERONA
via Piazza 57, tel. 045.71.45.000

Dialogherà con l'autore il poeta e cantautore
 OLIVIERO MALASPINA


sabato 2 febbraio 2013

martedì 29 gennaio 2013

AMMEMANCA





A Bravetta il sole ttuppava sempre due volte al giorno. Prima dietro le gabbie delle galline, poi giù nella panza grama della valle. Non andava oltre, si fermava lì, io manco mi ‘nfacciavo a verificare; perché ospite ero, e mia zia per minacciarmi usava sempre il nome del padre superiore, ché padre Carlo, ché padre Carlo. Io, piccolo ero, e per quel poco che potessi affibbiare un ruolo ad ogni nome, quel padre Carlo l’avevo preso sulla minchia.
Lo so: prendere sulla minchia un prete che ti ospita nell’agriturismo “Missionari della Consolata” non è il migliore dei ringraziamenti. Ma vedere quel pezzo di valle dove la luce si ‘nturtijava tutta per scundersi, era una scusa. La scusa di vedere Roma stisa sul letto, strass compresi. Allafaccia! Perché alla fine della baldoria, l’entusiasmo del viaggio Parabitaroma, risiedeva proprio nel viaggio stesso: Roma la si vedeva col binocolo, diventava un’idea che avremmo dovuto in qualche modo squaiare nel prato inglese dell’istituto dove avevano deciso di rottamare la zi’ Vata dopo il congedo dai ventanni somali.
La Somalia. Mah, che minchiata mi dicevo e ruotavo il cestello di una lavatrice grande come il tagadà messo te taju. Perché rottamare una che consegna a Dio la vita, non è una cosa tanto bella considerando la modalità esistenziale: a mia zia toccò la lavanderia, ovvero le rrobbe te tutti li padri e le suore missionarie che solo con quel pretesto si ‘mmiscavano. Per il resto delle giornate, delle abitudini, delle celebrazioni, eccetera: li masculi dentro un’ala dell’agriturismo, le fimmane nell’altra. Manco in occasione dei pasti s’incrociavano, mai sia, mai sia, diceva zi’ Vata.
Anzi, sai che? Eh, Ppinu comu lu nonnu, sai che?, troppe domande faci, vai di là sull’amaca, diceva la sorella, che poi era una zia strana. Cioè, zia di mio padre, quindi prozia mia, ma con anticonformismi parentali, mi consolai. Noi, nell’istituto della Consolata eravamo, e consolarsi su tante inesattezze era l’unica via d’uscita. Ammè l’amaca, ancora oggi, ricorda il paradiso di quei viaggi lunghissimi su una Regata Weekend, nel cui bagaglio stipavamo i doni, l’offertorio in autostrada. D’accordo le latte d’olio, d’accordo lu vinu novu, d’accordo tutta ‘sta generosità che pure stonava, perché uno avente anche degli zii in Svizzera si abitua a ricevere cioccolate e mucche. Il sud riceve, mica dà? Ma siamo pazzi?
Dicevo, d’accordo tutto, ma quella volta che mia zia ci chiese di donare all’istituto un capretto vivo, fu il mio viaggio t’‛u tremulizzu. Ahi. Pigliammo l’animale dai pastori del Paradisu, quello di Parabita, lo legammo razze e peti e ce lo sucammo per centinaia di chilometri. In macchina cercavo di pigliare sonno, ma quello di tanto in tanto schiamava come ‘nu mmerda ed io ssaddavo e dicevo i morti alle suore, ai padri e a tutto l’ambaradan. Mena e rrivamu, papà, che questo prima o poi si slega e si vendica. Mena papà, mòvite.
Poi arrivammo e nessuno ci disse grazie. Cavalcai l’amaca ché mi sapeva di cosa nuova, perché il paese mio se la sarebbe sognata, poi dopo due giorni tornammo a casa. E vaffanculu a tutto: non ci tornai più. Povero capretto, ma Dio questo vuole? E Gesù, nu pija parte, eh? Gesù, cci dice? Dormi ‘Ngiò, dormi e spicciala che tra poco siamo a casa. Mio padre allora mi chiamava ‘Ngiò, ed io mi sentivo ammericano te quiddhri bboni e non uno stupido bambino cogli occhi talmente storti da non vedere Roma, il mondo. Anche mio padre vedevo come l’ammericano. Adesso tutto è cambiato, ho ccunzato gli occhi e già sarebbe una gran cosa se vedessi mio padre come un padre. Ma quello è un altro discorso che ho preso sullo stommucu prima di dirvelo.
So solo che uno ad un certo punto deve dire. La deve smettere di fare il “gioco del silenzio”, come mi sussurrava la mia amata zia, l’altra, mentre m’incantava d’asilo. Io ancora oggi aspetto che mio padre mi svegli te bbonnummeju e mi dica ‘Ngiò domani s’andrà a Roma, con o senza capretto. Se proprio devo essere sincero, spero ancora che il padre di mio padre, fratello amato di ‘zi Vata, si tolga di dosso quelle cazzo di assi legnose, mi carichi nella centoventisei rossocomunista e mi canti volacolombabiancavola, nell’attesa della Marozzi con dentro la suora superiora che torna in paese per la festa dei santi.
Altro cazzunculu.
Noi questa cosa della chiesa ce l’abbiamo sempre avuta, in casa. Da generazioni, infatti ci portiamo sulle clavicole le statue di un santo, che poi son due, eh eh, ché volevi più leggerezza? No, due santi, Cosma e Damiano vinti in una briscola scumbinata. Da antenati e antenati, ce li portiamo con noi, nessuno li ha dati ad un santuario, forse per paura che le nuvole diventassero nuveje e maledizioni pe lla famija Cristaldi. Ci organizziamo pure la festa rionale; nell’ultima però mio padre s’è frainteso col fochista, niente botti, e Cosma e Damiano hanno sceso la rampa del castello angioino girati di culo. E per la prima volta in vita mia, dò ragione ai santi. E anche alla zi’ Vata, che mai ho visto così molleggiata di gesti e ncazzamenti dopo il raggiungimento dei novantanni. Eccarne.
  
Tutto questo per dire che ieri, dopo venticinque anni sono tornato a Bravetta per valutare la possibilità di indovinare il sole ‘nturtijatu nella valle, oltre le gabbie delle galline. Tanto più che adesso l’altezza me lo concede. Ho desiderato di andarci solo, cercare i grumi d’asfalto giusti, granello su granello, toccarli non solo con le suole, come per chiedere se mi avessero incrociato mai, da bambino. Se avessero visto mio padre tenermi la mano e darmi gli scoppoloni che mai ho ricevuto. Se avessero visto mia madre dirmi in continuazione “saluta qui, saluta lì, fanne l’educatu”.
All’inizio mi sono imbattuto in un altro istituto, quella scuncignata al citofono mi fa “Niente suore vecchie qui!”. Poi ho chiamato mio cugino, ché quello conosce il virus della nostalgia, e con la tecnologia ho saputo il vero indirizzo. Sì, proprio quello. L’ho raggiunto, ci sono entrato e ho ringraziato Dio, ahimè. Quegli stronzoni ridevano quando, aspettando il buon vecchio don Carlo, accarezzavo i segni dell’amaca sulle cortecce e i due pini cotulavano la chioma. Hanno riso pure quando mi sono fatto accompagnare nella lavanderia e chi ti trovo?, lo stesso tagadà te taju, pronto a girare, come mi giravano ricordi ‘ntr’a capu malata.
Don Carlo, arriva, si siede, mi invita a fare lo stesso. Mi dice zi Vata?, ahaahahah, a casa la chiamate ‘zi Vata. Quando eri alto come quel capretto lì, vedi?, no don Ca’, nu zziccare cu lla storia te li capretti. Mi dice, eri alto così quando non volevi saperne del mondo, e adesso ti trovo qui. Faccio, padre, mi stavi sulla minchia, e lui mi dona una scoppola, come all’offertorio. Poi mi racconta la storia di una zia che per ventanni aveva aiutato il popolo somalo e che chiedeva e chiedeva e chiedeva alla sua famiglia dei beni, anche gli avanzi, per assolvere al suo eterno sacrificio religioso. Capisci?, mi fa, ventanni a togliere i corpi bruni dalla polvere di una eterna guerra civile, poi il doppio per proseguire la sua missione in Italia. Allora mi scappa una lacrima, allunga il braccio e mi ssaddu comecché fosse una scoppola. Era una carezza, la più lunga che avessi mai ricevuto, pensai fosse il prolungamento di una carezza paterna, elemosinata e maledetta.
Dico, padre Carlo, non mi stai più sulla minchia.
Dice, me la saluti, quando tornerai? Per me rimane l’unica madre superiora.
Dico, io nella mia terra non ci so stare più.
Dice, che ti manca?
Mi manco, mi sono mancato per tanto tempo. Nessuno mi attende più, laggiù.
Sarà che prima c’avevo un Dio per paura, sarà che oggi le colombe non volano più e se volano sono piccioni spruzzati col bianco delle bombolette, all’uscita degli sposi. Fatto sta che zi’ Vata ha perso l’udito e se prego o bestemmio, fa lo stesso. Io non so chi per primo abbia inventato il virus della nostalgia, so solo che per guarire manca sempre quel pezzetto di viaggio.