martedì 26 marzo 2013

ALLE VOLTE ‘U VICHINGU - Morire per il calcio che non conta




‘U vichingu.
Ma mica perché c’avevo bruttezza, no. Mi chiamavanu ‘u vichingu perché quando entravo in campo un solo obiettivo intrecciava i nervi miei: abbattere chi mi si fosse presentato di fronte, uomini, trattori e tir, alla stessa maniera. Che me ne fotteva ammè di fare la signorinella come questi che si sminchiano sull’erbetta, pronti solo a imbrillantinarsi la cresta e a togliersi i peli dalle gambe. Il carattere mio lo facevano gli allenatori, non io, non i genitori, tantomeno le esperienze: se un allenatore avesse avuto la cosa delle sovrapposizioni e dell’aggressione di uno spazio giocato, io avrei fatto lo stantuffo, se al contrario avesse coltivato il fegato del compassato, secondo cui una squadra vincente si fondi sui filtri mediani, io mi sarei piazzato a centrocampo e avrei agguantato quadricipiti e pallone, uomini, trattori e tir, alla stessa maniera. Che cazzo me ne fotteva ammè.

(Vagliò, che guardi? ‘Na sambuca, dammi).
Il calcio di allora era diverso. Per noi era un lusso giocare nella terra, anche quando ti scacazzava in testa gesuccristu, e dalla polvere passavi alla moja. Fango vero, non la torba del professore vivaista. Allora sognavamo sì, mica eravamo minchi; noi sognavamo come tutti gli altri, solo che il nostro sogno ce lo guadagnavamo a morsi e senza parastinchi. Cci ggè, tutte ‘ste mmosse? Li parastinchi? Ma non farmi ridere. Tu ne capisci di psicologia?, se ti presenti al nemico con le mutande in ghisa, quello che fa?, quello pensa subito ad incularti, non ad affrontarti di petto. Noi andavamo senza parastinchi, a volte anche senza divisa, perché non c’erano i soldi, peggio di adesso. Fede nei colori? Tie simminchia!, tutti strazzati eravamo e prestavamo fede solo alla vittoria e al pezzo di gavoi a fine partita.
Se pure ci fossimo cacati addosso, avremmo dovuto non darlo a vedere; specie io, io ero il capitano, in più c’avevo una barba te giungla, e la rissa sotto le unghie. Io ero ‘u vichingu e ogni volta dovevo farlo capire. Mica ‘ste puttanate di mo’: ‘u faraone, ‘u pupone, e cazzate varie.
Essere vichingo comportava una serie di doveri, come quello di vedere allo stesso modo uomini, trattori e tir. Un frontale? Bene, avrei fatto un frontale ogni domenica, poi avrebbero potuto chiamarmi bastardu, intanto la squadra avrebbe strazzatu i tre punti e sarebbe salita in classifica. Mica seria A, no, solo Prima Categoria, ma tanto per me valeva lo stesso: noi eravamo nella serie A della vita, perché dopo la domenica ci stava comunque il lunedì, e quel lunedì non sarebbe stato calcio o scrivania, ma cazzafitte, mi spiego?, intonaco, ponteggi, buttamenti di sangu.
In sostanza, giocavamo per passione, quella passione a cui dai un nome da quando hai dedotto che profferendo assalto, guerra, battaglia, saresti stato oggetto dei soliti pregiudizi paesani. In paese tuttavia mi volevano bene, almeno così sembrava guardando gli spalti. Per me il paese la tribuna era, nella piazza continuano a starci nient’altro che i coglioni.
E poi? Poi quelle domeniche passarono per la gola squamosa del tempo ‘nfamune. Passò anche il paese mio, gli spalti gremiti come l’inps, gli spogliatoi scrostati a unghiate,  la pantofola d’oro col grasso di foca, e tutti quei talenti cresciuti a scorze di pane e smadonnate. Misi il lavoro e la famiglia prima di tutto il resto, emigrai in Germania. Mica Milanu, no, Germania, roba seria e zitta. Fatica e fatteicazzituasempre.

Tu adesso domandi ammé, ‘u vichingu, perché sia morto quel povero ragazzo di Soleto.
Ammé questa cosa ha creato tanto di quel dolore che sarei andato a Roma, avrei preso quelli della Figc, li avrei legati al gancio traino della Opel e trascinati fino al Ministero della Salute; poi avrei preso il ministro, lo avrei ‘ncaprettatu come quegli altri e avrei fatto cadere la macchina in una piscina di merda fino a che non fossero morti ‘nfucati. Sì, affogati, li morti loru.
Perché? E mi domandi pure perché?
Perché finché scompigliamo spettacolo siamo buoni, ma quando domandiamo se non altro un monitoraggio medico che ci consenta di fare quello spettacolo, diventiamo rompicoglioni e rumatu. Spesso spremibili sotto il torchio della disciplinare.
Ellovedi che mi capisci? Io vichingu sono rimastu, anche fuori da quelle quattro linee di gesso. E fuori le quattro linee vuol dire fare l’allenatore, nella propria terra, coi sogni crudi come le ginocchia che zumpano sui grumi di tufara: sono tornato nel Salento e mi sono messo a governare i ragazzi delle giovanili, poi quelli della prima squadra. Certo, essere ‘u vichingu in panchina è come fare il trapezista sull’altalena dell’asilo nido; ti manca quella possibilità di allungare la gamba dove il tuo compagno non arriva, per vedere se sia vero che a certi trattori, certi tir, non si possa togliere il pallone da sotto la marmitta. Se non si possa farli stramazzare al suolo al pari di tutta la carne dribblata.
Rimani lì, quello è il brutto, hai la tua area, hai quell’aia entro cui poterti dimenare come cazzo ti pare al fine di trasmettere una vichingaggine a undici signorinelle, ma niente di più. Tu attacca lo spazio, te chiudi la diagonale difensiva, tu fai l’elastico, quell’altro il blocco in area e quell’altro la solita sponda sul centrocampista che poi manderà in profondità l’attaccante. Quando l’arbitro fischia ingiustamente, t’avvedi che non puoi più raggiungerlo e ringhiargli in faccia, e scalci la prima cosa che ti capita sotto i piedi, una borraccia, ‘nu pallone te scorta, il secchio del massaggiatore. Lu nervosu ti mangia, perché se c’è una cosa che non muta mai col passare degli anni è il vento che passa nella rete avversaria quando cade la domenica giusta.
Mi capisci, Giusè? Tu non capisci una minchia, altrimenti non avresti lasciato il calcio per scrivere ‘sti cazzu te libri.
Fare l’allenatore, è vero, imbriglia chi tiene lu temperamentu te lu vichingu, ma in compenso ti offre delle emozioni che, stando nel tufo, vedresti passare tra l’anche, a mo’ di tunnel.
Una di queste emozioni è la solitudine di certi giocatori, a partita in corso. Una solitudine pazzesca: ci stanno dieci altri compagni, un pallone che passa da piede a piede, voci, incoraggiamenti, una miriade di pretesti che scongiurano astrazioni, ma quelli manco per il cazzo. Tu ci urli addosso, stanno a cento metri da te, eppure emanano quella tanfa ermetica di un isolamento che dagli spalti non si vede, ma che fa vibrare la capanna di lamiera in cui ti ficcano con tutti i panchinari. Un allenatore, allora, più che farli marcare stretti dagli amici, più che appioppare una compagnia palliativa, deve trovare il grimaldello per accogliere quella tanfa, fare sì che agli occhi del diretto interessato quella tanfa diventi profumo. ‘Nu mister deve essere soprattutto psicologo, deve vedere anime dietro quelle creste colorate, dietro quei tacchetti avvitati accazzu, dietro lo strappo che fa il muscolo quando piomba il freddo e le tagliatelle al ragù sono un miraggio da miscelare a gesti scaramantici.

Perché, ti dico questo? Perché.
Perché nel calcio puoi nascere vichingo, crescere la barba e azzannare a destra e a manca, vedere talvolta l’effetto che fa la tua grinta nell’umore del malcapitato di turno, un uomo, un trattore, un tir; però, quando vedi che al posto tuo è quel figlio in solitudine a morire sulla tufara, due conti te li fai. Due conti, cristuddiu, te l’ha fare pe fforza, sennò non sei un calciatore, non sei un allenatore, sei solo un uomo di merda.
Io di errori ne ho fatti tanti, è facile prendermi sulla minchia, però so che quando un ragazzo ti cade nella polvere a peso morto non basta attribuire colpe alla malformazione di un cuore. Perché com’è vero che certe cose non puoi prevederle, è pur vero che per accedere ai monitoraggi medici un calciatore te nenzi, come lo siamo tutti dalla Prima Categoria in giù, deve spendere somme che varrebbero una sontuosa spesa al supermercato. Pane, ddhru ddiu, anche solo un chilo di pane e una bistecca, posto che uno non abbia nu piccinnu appena natu.
(Vagliò, ancora guardi? ‘N’altra sambuca).
Il ruolo dell’allenatore, come ti dicevo, ti impone di sfogliare le personalità, sbucciare i cuori dei ragazzi per sentire la polpa delle emozioni, quindi aggiungerla alla propria e fare in modo che dal folto dei peli di ‘nu scerratu germogli la comprensione, perché se la comprensione ce l’ha un uomo, un trattore, un tir, allora deve possederla anche ‘nu vichingu.
Giusè, sentime bonu: nelle nostre categorie la visita medica è obbligatoria, ma non passibile di sanzione. La maggior parte di questi figli che vanno a spricularsi in campo preferiscono farla dal medico curante anziché affidarsi ad una struttura sanitaria qualificata, semplicemente perché quest’ultima, a differenza del medico, batte cassa, e ogni colpo vale la bellezza di sessanta euro. Ne deriva che di tutti gli atleti militanti dalla Prima Categoria in giù, ovvero circa quattromila persone nella sola provincia di Lecce, solo il venti per cento conosce attendibilmente il suo stato di salute.
Vogliamo scancare la piaga?: la presenza di un’ambulanza all’interno dell’impianto sportivo è resa obbligatoria fino all’Eccellenza, dalla Promozione alla Terza Categoria, nun c’è ‘nu cazzu, me capisci?, nenzi te nenzi, solo la lungimiranza di qualche società che a spese proprie si munisce di attrezzature per il pronto soccorso, tra cui il defibrillatore.
‘U pesce puzza t’‘a capu. Qui ci azzanniamo per inezie, per un fischio, una gambatesa, un insulto, una pietruzza lanciata dalle tribune, e non pensiamo al resto. Intanto la Figc, mediante lo scudiscio della disciplinare, ci bbinchia in capu, ci costringe a stare zitti, a non fiatare. E noi lo facciamo, perché non è bello assistere alla radiazione della Società in cui hai militato sin dalla nascita.
La Federazione non se ne fotte un’amata minchia della salute, le basta solo domandare anticipatamente i soldi per l’assicurazione dei cartellinati. Se, invece, rigettasse tutti i tesseramenti incompleti, per fare un esempio, le iscrizioni di tutte le società sportive non abilitate, per farne un altro, tutti i campi da gioco sprovvisti di omologazione e via dicendo, si giocherebbe fino all’Eccellenza. Poi basta, scarpe al chiodo per tutti, salubre carpenteria e vaffanculo. Altro che pallone.
(Se c’intratteniamo ancora calanu la serranda del bar, con noi dentro. E avoja sambuca).
Mi è andato il sangue a male, oramai. E c’è di nuovo che rimani il vecchio rompicoglioni, e che nessuno come te mi saprebbe intrecciare i nervi come una volta. Come quandu ‘u vichingu infiammava il campo, e tutti cominciavano a scacazzarsi nelle mutande.
Vabbè, andiamocene, ché come certe cose non si dovrebbero ricordare, così certe altre non dovrebbero accadere. Quando ‘nu vagnone cade al centro della tufara, senza dire sillaba, col gioco che si sviluppa dall’altra parte del terreno, non è solo un cuore a fermarsi. Ma quello di tutta una squadra che a partire da quel tragico momento passerà i suoi giorni campando a metà, come chiunque spolveri il culo dell’epilogo col sudario dei ricordi.


Ci sono domeniche che non passano mai, specie quando stai vincendo, e non hai fatto in tempo a spiegare al terzino sinistro che quando si è in vantaggio si deve perdere tempo, calciare il pallone su marte e morti soi, all’occorrenza. Se però, a prolungare il tempo, è la caduta di un ragazzo, guardo la borsa che custodisco nell’angolo della lamiera. Maledico quei secondi che poco prima avrei benedetto e mi chiedo se le piastre del defibrillatore la pensino allo stesso modo, se siano pronte e adesive quanto le si vorrebbe, se gli elettrodi riescano ad eccitarsi come avvezze puttanone. Sono secondi bastardi, sono vite squicciate nell’arco di un respiro, vite in una immensa sala d’attesa senza soffitto. ‘Na tufara di geometrie bianche.
Gli attimi che rubi alla sospensione, li consegni alla paura, la paura che un figlio come Alessio ti muoia sotto agli occhi, così, come un pallone che va oltre la recinzione e che nessuno ti restituisce più. Osservi i calzettoni che s’infittiscono davanti al volto sporco di gesso e non ci vedi un trattore, un tir, ‘nu vichingu, ma una moglie ed un bambino piccolo piccolo che dice papà stringendo la maglia del Milan e se rotola la palla sotto il tavolo, ha un pretesto per cominciare a camminare.


 Da un incontro con l'allenatore ANTONIO RIZZO.

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